Le quattro volte
di Michelangelo
Frammartino (Italia, 2010, 88’)
Le quattro
volte affascina per il suo essere in bilico tra racconto a tesi e
documentario. Per l’enigmaticità stilistica di alcuni suoi episodi, nei
quali è impossibile discernere gli effettivi confini tra “messinscena” e
“pura visibilità”. Quanto c’è (e quanto mai ci potrebbe essere) di
programmato nel piano-sequenza della complicatissima coreografia alla
Jacques Tati con fedeli in processione, figuranti in abiti romani, capre,
cane, sassi e furgone senza freni?
Frammartino
compone i suoi paesaggi filmici al millimetro, ma poi ha il coraggio di
affidarsi al caso, a quell’indice di aleatorietà sempre insita nella
“recitazione” di un animale. Tutta la sequenza del gregge che occupa la casa
del pastore defunto, e soprattutto l’emblematica visione della capra sul
tavolo (che non a caso conquista la locandina del film), è un balzo di stile
che “emigra” dal testo a cui appartiene, abbandona il cinema del reale per
avvicinarsi a certi spiazzamenti della pittura surrealista, alla
fantascienza post-apocalittica (la fauna che riprende i suoi spazi dopo la
scomparsa dell’uomo), o anche al delirante finale de Lo zoo di Venere
di Peter Greenaway (e non solo per la presenza delle lumache).
Come i Lumiere,
Frammartino vuole catturare il mondo in un campo totale. La cinepresa
accenna qualche panoramica, ma resta abbarbicata sul suo cavalletto come una
capra sulla roccia. Da ciò derivano tutti gli altri connotati: personaggi
inghiottiti dallo sfondo, voci dialettali remote e indistinguibili, dominio
del sonoro d’ambiente. E questa pulsione alla “chiusura”, a serrare ogni
materia in una immagine-gabbia, si manifesta in vari momenti: la lapide che
sigilla la tomba del pastore, i tronchi prigionieri della gigantesca
carbonaia, il solco del terreno che immobilizza la neonata capretta, la
polvere magica custodita nel foglio di giornale... Uteri di diversa forma e
scopo, che parlano di morte e rinascita.
Allo stesso
modo, le immagini di Frammartino sono incubatrici che tentano di mantenere
in vita tanto cinema lontano (Bresson, Pelechian, Tarkovskij, Olmi, Piavoli),
fino a replicare quasi alla lettera una celeberrima sequenza della storia
del documentario. È il caso della “Festa della Pita” ad Alessandria del
Carretto (provincia di Cosenza), culto di fertilità con un abete tagliato e
trascinato a valle, pulito e curato come un figlio collettivo, per poi
essere trasformato in albero della cuccagna. Lo stesso rito e lo stesso
paese ai quali Vittorio De Seta dedicò nel 1959 i venti splendidi minuti del
suo I dimenticati. La stessa scena che Tati inserì in Giorno di
festa nel 1947. La trasmigrazione delle anime vale anche per le
immagini.
E partendo da
Pitagora, si arriva a Platone: Le quattro volte non ci racconta
dell’“uno”, ma dei “molti”. Uomini, capre, lumache, formiche, rami, cenere,
fumo, hanno significato solo fintantoché si agitano in gruppo, nel branco
che li (con)fonde ai propri simili. Appena uno di questi (il pastore, la
capretta, l’abete) si isola, finisce col perire, con lo sparire dalla scena,
dopo un transitorio intermezzo da protagonista. Ma il fulcro di questa
Storia impersonale non è chi muore, bensì chi (o addirittura “cosa”)
continua a vivere dopo. É ciò che ci suggerisce l’inquadratura finale,
splendidamente riassuntiva: sullo sfondo, la silenziosa montagna che domina
l’abitato (la natura madre); nella parte bassa del quadro, i tetti del paese
(la civiltà, figlia della natura); in primo piano, il fumo che esce dal
comignolo (il mondo minerale, gassoso, pura anima che congiunge gli altri
due regni). C’è qui forse l’utopia di una pacifica convivenza tra Madre,
Figli e Spirito. O forse la prefigurazione di un pianeta azzurro che un
giorno saprà fare a meno di noi.
Dante Albanesi
(San Benedetto del Tronto, 1968). Docente di discipline cinematografiche e
televisive. Scrive di cinema su riviste e siti web. |