Critica doc
   A cura di Dante Albanesi


Motoboy
di Cèsar Meneghetti ed Elisabetta Pandimiglio (2004, 55’)

Brasile, 2002. Traffico infernale e indigenza diffusa hanno reso le consegne in moto l’occupazione più comune tra i giovani: solo a São Paulo i “motoboy” sono oltre 300.000. Sono audaci e imprudenti. Ogni giorno, almeno uno di loro si schianta per la strada, abbandonando sull’asfalto grigio della seconda città più trafficata del mondo il sogno di un avvenire migliore. Gli automobilisti li definiscono delinquenti, drogati, assassini. O anche cachorros loucos, cani rabbiosi. Dall’alba al tramonto, i motoboy mettono in pericolo la propria vita e quella di chi li circonda (perché, in fondo, cosa avrebbero da perdere?). Una sera, mentre tutta São Paulo è in festa per la vittoria elettorale di Lula, al giovane Ratinho viene rubata la moto, e con essa l’unica opportunità di sopravvivenza…

Conoscevamo già Elisabetta Pandimiglio e Cèsar Meneghetti per corti densi e sfaccettati come Romevideo (carrellata notturna e antituristica attraverso Roma), il premiatissimo Sem Terra (la vicenda di un uomo conteso da due donne tra Sudamerica e Italia), e per Sogni di cuoio, tra i rarissimi documentari italiani ad uscire nelle sale, dedicato ad un gruppo di calciatori sudamericani emigrati in Italia. Ma Motoboy è un deciso passo avanti nella loro ricerca di un documentario che abbia il coraggio di sentirsi cinema, rinnegando con forza quello stile medio e “asettico” imposto dall’attuale regime catodico. Il motocinema dei due autori attraversa le categorie e i generi, tra analisi socio-economica, sperimentazione linguistica, docu-finzione, interviste compresse in poche fulminanti battute, primi piani da reportage e sovrimpressioni da videoclip. Stili e registri diversissimi si alternano e si sovrappongono inquieti, come tanti veicoli affiancati in un ingorgo. Ogni inquadratura di Motoboy è anti-televisione: non per niente, ogni volta che un apparecchio TV entra nell’inquadratura, le immagini si fanno distorte, come a dire che la realtà non è lì, che il piccolo schermo (con i suoi “notiziari”) spaccia al nostro sguardo una verità deturpata.

Alla radice dell’opera di Pandimiglio-Meneghetti c’è il viaggio, la Distanza geografica e temporale. E una frase di Ratinho rimarca questo tema: “La gente ha preso il vizio di dire ‘è urgente’ anche quando non lo è.” L’assuefazione alla fretta, ad un ritmo convulso che aiuta a percepire il mondo più brioso e gradevole. Il motoboy insegue gli ordini degli altri, il denaro e il potere degli altri, di chi resta in casa e non si azzarderebbe mai a calcare di persona certe zone malfamate. Una giostra ininterrotta per spostare merce che non si possiederà mai, fino a trasformare in merce anche se stessi, caschi scuri impersonali e anonimi. “Sembra che sia sempre lo stesso motoboy”, afferma uno degli intervistati. “Repliche, cloni… Uno degli elementi della contemporaneità è proprio la molteplicità dell’ignoto, del vuoto.” Uno, nessuno, trecentomila. E nella sequenza in cui Ratinho si aggira tra la folla alla ricerca della motocicletta perduta, è impossibile non pensare a Ladri di biciclette e alle immagini grondanti realtà di De Sica e di tutto il neorealismo. Ciò perché, nonostante tutte le differenze “esteriori”, Motoboy viene da lì, dall’antica utopia di un cinema che concili innovazione stilistica e denuncia sociale.


 


 Dante Albanesi (San Benedetto del Tronto, 1968). Docente di discipline cinematografiche e televisive. Scrive di cinema su riviste e siti web.