Critica doc
   A cura di Dante Albanesi


La vita al tempo della morte

di Andrea Caccia (Italia, 2009, 82’)

 

Prima di inventare storie o mostrare immagini, i lavori di Andrea Caccia pongono allo spettatore un’inattesa domanda: “Che cos’è il documentario?” Quali sono (se ci sono) i confini di questo genere?

Forse il modo migliore per comprendere un’opera linguisticamente estrema come La vita al tempo della morte è abbandonarsi al divenire della visione, alla pura indifesa curiosità di scoprire “cosa sarà mostrato dopo”. Uno struggente prologo di tre minuti sulla lenta agonia di una farfalla ci accompagna all’interno del film. Primo atto: le cascate della Lavagnina, in Piemonte. Rigorose inquadrature fisse, strette, sfocate, dagli strani bagliori biancastri. Sapientemente rielaborate fino a sembrare una sorta di pittura fresca, tremolante, non ancora fissata sulla tela. In questo universo senza parole l’uomo è una presenza anomala. Giovani corpi fugacemente relegati ai bordi del quadro o nei rumori fuori campo. Macchie rosa che attraversano verticalmente il campo visivo, un attimo prima di tuffarsi in acqua. Vera protagonista è la natura, i rami in controluce, il fluire delle stagioni, i millepiedi tra i fili d’erba, la neve che assopisce il paesaggio.

Nero. Secondo atto: l’interno di un ospedale. A differenza della Lavagnina, indagata in ogni anfratto, di questo luogo non ci viene detto e mostrato nulla. Solo una fredda e regolare serie di primi piani, dove un gruppo di malati (terminali?) racconta la propria vita, le abitudini minime che riescono malgrado tutto a coltivare, le piccole gioie e manie, la resa alle ore che scorrono.

Nero. Terzo atto: un garage da ripulire. Seguiti dalla voce narrante dello stesso regista, Andrea Caccia e suo fratello Massimo tentano di recuperare un luogo abbandonato a se stesso da anni. Affrontano montagne di buste e scatoloni, raggruppano gli utensili in famiglie, riscoprono dischi e giocattoli amati. E fra mazzi di carte e tenaglie, riaffiorano le medicine e le ultime cartelle cliniche del padre appena scomparso, di professione imbianchino. La sua eredità è una collezione di vernici, colori ancora vividi e intrisi di ricordi. Ma questo atto finale è in bianco e nero, e ciò che Caccia ci lascia vedere è solo un mucchio di barattoli grigi...

La vita al tempo della morte è una tragedia in forma di documentario, classica nella tripartizione, avanguardistica nello stile. Una struttura labile, quasi evanescente, scissa da brutali cambi di registro. L’assenza di un concreto sviluppo narrativo lascia il posto ad un’obliqua riflessione attorno all’eterno tema del Tempo, di ogni Fine e di ogni Inizio, del divenire e del trasformarsi di ogni materia fisica. Ed è proprio il rifiuto di spiegazioni univoche, di “finali” lieti o amari che siano, a generare ogni domanda. Abbiamo visto un solo film o tre corti dello stesso autore? Le millenarie fenditure tra le rocce della Lavagnina sono “come” le rughe che scavano i volti dei degenti dell’ospedale, “come” la ruggine che sta invadendo la porta di quel garage? La morte è come un repentino svanire sotto il pelo dell’acqua, o come una lattina di vernice che lentamente si secca? I luoghi e gli oggetti smettono di vivere nel momento in cui vengono abbandonati dall’uomo? O forse è proprio la loro “durevolezza”, la loro taciturna conservazione (sepolti dai geli dell’inverno o in un sacco di abiti dismessi), a fornirci la prova inconfutabile del nostro passaggio? Evoluzione diretta dei suoi precedenti corti Disco inverno e L’estate vola, La vita al tempo della morte è un malinconico saggio sull’esistenza umana, animale, vegetale, minerale, che proprio nell’ultima scena ha il coraggio di sciogliere ogni cupezza in una liberatoria danza infantile, dove John Cassavetes incontra Yellow Submarine.



 


 Dante Albanesi (San Benedetto del Tronto, 1968). Docente di discipline cinematografiche e televisive. Scrive di cinema su riviste e siti web.