Critica doc
   A cura di Dante Albanesi


Draquila - L'Italia che trema

di Sabina Guzzanti (Italia, 2010, 93’)

 

É chiara, nel film di Sabina Guzzanti, l’intenzione di riprodurre quel “canone” che Michael Moore ha ormai imposto a livello internazionale. Ovvero: registro satirico, lettura socio-politica, prevalenza della voce narrante, coincidenza regista/attore, montaggio parodico, eterogeneità degli stili (interviste, filmati di repertorio, inserti grafici…). Una ricetta laboriosa e di difficile amalgama.

Riguardo ai contenuti, c’è poco da dire. Tutto ciò che Draquila afferma è sacrosanto. Documenti, intercettazioni, sperpero di denaro pubblico, leggi ad personam erano già sotto gli occhi di tutti. Caso mai, Draquila è il primo testo audiovisivo ad aver riunito assieme questi dati, depurandoli dalle nebbie del chiacchiericcio televisivo. E nell’epoca della babele mediatica, tale genuina chiarezza può aver scioccato molti. Ecco perché le accuse del ministro Bondi su Draquila “che offende l’Italia e la verità” sono soltanto ridicole, e rappresentano l’ennesima replica di ciò che un altro ben più acuto politico dichiarò sessant’anni fa dinanzi al successo mondiale di Ladri di biciclette. Purtroppo per costoro, il cinema continuerà ancora per molto a lavare i panni in pubblico.

Dal punto di vista formale, il discorso cambia. Tralasciando l’effetto sgradevole della voce off, bloccata su un accento sarcastico che non concede la minima modulazione (ricordiamo i continui sapienti cambi di tono nelle affabulazioni di Moore), il problema principale è che in Draquila non incontriamo veri e propri “personaggi”, ma soltanto “argomenti”. C’è gente che esprime idee, ma che non le incarna. Interviste che non riescono a diventare immagine, televisione che non riesce a farsi cinema. Il solo carattere che assume piena tridimensionalità è il professor Colapietro che persiste ad occupare la propria casa in centro, dopo averla riparata con 3.000 euro; qui, almeno per un minuto, le mura lesionate, i libri sulla scrivania, la città morta intravista dal balcone dialogano con il volto dell’anziano resistente. Un’armonia visiva di ambienti e parole che nelle altre conversazioni non viene mai nemmeno tentata.

Ma nel passaggio da Moore alla Guzzanti sparisce anche un altro elemento: la “performance fisica”. Moore abita il suo film con una presenza a tutto tondo, fatta di voce e soprattutto di corpo. Accumula dati, ipotesi, obiezioni, ma poi alla fine agisce: irrompe sulla scena e la sconvolge in indimenticabili sequenze che sbalzano il film ad un’altra dimensione, trasformando un documentario puro nella documentazione di un happening. In Sicko traghetta un gruppo di malati terminali alle coste di Guantanamo, chiedendo che siano accolti nel modernissimo ospedale della prigione. In quel grande saggio filmico che è Capitalism (anch’esso dedicato al Diritto di una casa), recinta il perimetro di Wall Street con il famigerato nastro giallo “Scena del crimine”, stravisto in migliaia di polizieschi. È in questo fortissimo contrasto iconico che si palesa il genio metalinguistico di Moore, il suo raro talento nell’irridere i camuffamenti della realtà con i segni rivelatori della finzione.

In Draquila, invece, di tali “sconfinamenti” non vi è traccia. Sabina Guzzanti discute, indaga, perlustra, ma non si fa mai corpo attoriale, non si fa mai creatrice di immagini. Non si espone né come attrice, né come regista, restando testimone al margine degli eventi. Unica eccezione: il suo comizio in veste di Berlusconi sul luogo della tragedia, con lo splendido umorismo nero sul sisma che “ha battuto tutti gli indici di ascolto”. Ma non è altro che uno sketch fugace, quasi il prologo comico di una puntata di “Ballarò”. Ed è significativo che la sola invenzione visiva di tutto il film, ovvero la surreale deriva notturna di Guzzanti-Berlusconi tra le rovine di L’Aquila mentre (un po’ Dracula e un po’ Napoleone a Sant’Elena) dialoga a tu per tu con il Terremoto, sia stata inopinatamente tagliata dal montaggio definitivo. Come se la regista avesse avuto paura di osare “troppo”, di allontanarsi (anche stilisticamente) dalla sua vera casa perduta, la Televisione.



 


 Dante Albanesi (San Benedetto del Tronto, 1968). Docente di discipline cinematografiche e televisive. Scrive di cinema su riviste e siti web.