Critica doc
   A cura di Dante Albanesi


Nostalgia de la Luz

di Patricio Guzmàn (Francia/Germania/Cile, 2010, 90’)

 

Sopra/Sotto. Presente/Passato. Memoria/Oblio. Luce/Buio. Raramente il cinema della realtà ha basato la propria scrittura su contrasti così netti e puri, talmente astratti da sembrare finzione. E non per niente il set sul quale Guzmàn ambienta il suo racconto etico è ciò che più si allontana dalla nostra idea di “luogo reale”.

Cile, deserto di Atacama. Nella zona più arida del pianeta si consumano da anni due opposte, simmetriche, instancabili ricerche. Verso l’alto: l’Osservatorio astronomico del Paranal ospita scienziati di tutto il mondo, richiamati dall’eccezionale trasparenza del suo cielo. Verso il basso: donne che vagano tra sassi e dune assolate, nella speranza di trovare brandelli di abiti, minuscole ossa, estreme testimonianze dei loro parenti sterminati sotto la dittatura di Pinochet. In questo paesaggio lunare, le uniche costruzioni umane oltre all’osservatorio sono le ottocentesche miniere di nitrato. Con dolente sarcasmo, Guzmàn ci spiega che i minatori lavoravano in condizioni di letterale schiavitù; quando Pinochet “riconvertì” questi dormitori in campi di concentramento per dissidenti, l’unica miglioria necessaria fu quella di circondarli col filo spinato. Uomini che si lasciavano inghiottire nelle viscere della terra, donne che setacciano tra la polvere gli ultimi resti di figli, mariti e padri… Prima di darsi come documentario, Nostalgia de la Luz è un trattato di filosofia morale sull’utilità della storia per la vita, e sul danno di ogni amnesia personale o collettiva. Ecco allora che lo sguardo degli astronomi al cielo diventa liricamente uguale allo sguardo delle donne attraverso il nulla dell’Atacama. Perché la volta celeste che si rivela al Paranal non è il Presente, ma il Passato: è il tempo che la luce delle stelle impiega per approdare a questo deserto (e molte di esse sono forse già morte da millenni). È per questo, suggerisce un ricercatore, che l’astronomia è anche un’archeologia, un’indagine cronologica e una pacifica guerra contro l’oblio. L’Atacama è dunque una sottile lingua di presente, schiacciata tra due tempi che si specchiano: tra un inesauribile Alto e un impenetrabile Basso, tra l’infinito passato del cosmo e il passato prossimo di dittature e massacri.

E ogni testimonianza, con la perfezione strutturale di un romanzo, si fa emblema di questa dicotomia. Nei lager di Pinochet germinavano singolari forme di resistenza, legate all’astronomia e alla memoria. Uno dei detenuti fabbrica un rudimentale telescopio, grazie al quale riesce a sentirsi parte di un universo libero. L’architetto Miguel Lawner disegna e distrugge ogni notte la mappa del campo; rifugiato in Danimarca tanti anni dopo, riuscirà a replicare l’esatta topografia del luogo che i militari volevano nascondere. Ma se Lawner ricorda tutto, l’Alzheimer ha rubato il passato di sua moglie Anita: per Guzmàn questa coppia è una metafora del Cile, sospeso tra nostalgie di luce e fuga nelle tenebre.

Non c’è salvezza fuori dalla memoria: come ogni corpo fisico, la sua “forza di gravità” ci riporta alle concretezze del reale. In Guzmàn c’è Kubrick, per la fascinazione sensuale delle macchine e il muto stupore dinanzi alla scienza; c’è Malick, per gli spericolati intrecci tra moti universali e cronaca particolare; e c’è soprattutto Herzog, per la tensione di sublimare ogni verità in narrazione, e ogni narrazione in saggio. Ma al di là di ogni valenza politico-sociale, Nostalgia de la Luz è una struggente riflessione sull’indomabile potere della vista (e dunque del cinema), sull’eterno desiderio dell’uomo di spingere i propri occhi oltre ogni recinto che la Natura o altre forme di Potere ci hanno posto davanti.

 


 Dante Albanesi (San Benedetto del Tronto, 1968). Docente di discipline cinematografiche e televisive. Scrive di cinema su riviste e siti web.