Sicko
di Michael Moore (USA, 2007,
123’)
Michael Moore resta un equivoco. Soprattutto per molta critica italiana, che
tende ancora a reputarlo un giornalista e/o un politico (nel peggiore dei casi
un “comico”), e non un (grande) regista a tutti
gli effetti. E per triste paradosso, il suo straordinario successo non fa che
ostacolare ulteriormente la piena comprensione del suo stile.
Contrariamente a quanto si pensa, Moore vive pienamente nel mondo del cinema e
possiede una lucida conoscenza dei suoi meccanismi. Sa maledettamente bene che
per poter garantire un minimo di visibilità al proprio lavoro, deve porsi allo
stesso livello “seduttivo” dei blockbuster statunitensi che per dodici mesi
intasano le sale di tutto il pianeta; ovvero: rivaleggiare con loro in velocità,
divertimento, cura formale, molteplicità, energia, coscienza metalinguistica.
Trasformare insomma il documentario in uno spettacolo popolare esplicitamente
rivolto al grande pubblico, ma senza per questo annacquare il vigore della
denuncia, senza concedere la più timida autocensura.
Prima di occuparsi di politica, economia, analisi sociale, Moore ha in mente il
tempo, e ciò rende ogni sua opera una battaglia contro il cronometro. Il film è
iniziato da poco più di cento secondi e già due aneddoti strepitosi ci
avvincono: il giovane che per evitare le spese mediche si cuce da solo una
ferita sul ginocchio, il falegname che perde due dita in un incidente e si fa
operare soltanto il dito che sarebbe costato meno! I 123 minuti di Sicko
mostrano una densità che lascia intuire centinaia di ore di girato, decine di
strade abbandonate e di digressioni scartate al montaggio. Tutti i
documentaristi, tutti i registi dovrebbero studiare la perizia con cui Moore
riesce a tratteggiare un personaggio in 40 secondi, dandogli un nome, un lavoro,
un problema, una frase che si scolpisce nella memoria; ammirare la struttura di
un testo che scinde nettamente una prima parte di “pensiero” e una seconda di
“azione”. Nella prima ora, l’ardore “bulimico” del cronista insegue fatti,
documenti, invettive, opinioni, mantenendosi fuori dallo schermo e limitandosi
alla voce narrante; nella seconda, l’autore si fa attore e scende fisicamente in
campo tra Canada, Francia e Cuba, verificando le tesi raccolte in un’antitesi
tanto puntigliosa quanto esilarante.
In tal modo, Moore conferisce alla forma-documentario la curva drammatica di una
commedia, dove la qualità primaria sta nel ritmo e nella sua varietà, nel saper
modulare dall’ironia al burlesco, dal sarcasmo alla cupezza. Dalla bambina che
muore di febbre perché nessun ospedale vuole accogliere un soggetto privo di
copertura sanitaria, al tizio che si frattura un braccio mentre tenta di
attraversare a testa in giù le celebri strisce pedonali di “Abbey Road”, alla
donna che in una farmacia dell’Avana acquista per pochi spiccioli un aerosol che
nel paese più ricco del mondo costa centinaia di dollari. Tale eterogeneità
tematica si sposa ad invenzioni visive da grande regista, o meglio da grande
satirico. Il fotomontaggio dei membri del Congresso USA che sfilano con i
rispettivi “scontrini”, pendenti su ogni testa come spade di Damocle e indicanti
il contributo elargito dalle grandi compagnie assicurative per bloccare la legge
sull’assistenza medica gratuita; l’infinito elenco delle malattie non assistite
dallo Stato che scorrono sulla musica di Guerre stellari; un incredibile
filmato di propaganda sovietico montato in parallelo con le miserie di un
ospedale pubblico americano; Moore che chiede alla prigione di Guantanamo di
accogliere un gruppo di malati terminali; Moore che elargisce in segreto
dodicimila dollari per pagare le cure mediche al creatore di un inviperito sito
anti-Moore: tutto questo è altissima satira degna di uno Swift. Immagini che
sanno porsi in quel delicato (e spesso frainteso) equilibrio dove umorismo e
disperazione sono una cosa sola.
Dante Albanesi
(San Benedetto del Tronto, 1968). Docente di discipline cinematografiche e
televisive. Scrive di cinema su riviste e siti web. |