Critica doc
   A cura di Dante Albanesi


Marx può aspettare

di Marco Bellocchio (Italia, 2021, 100’)

 

 

Il cinema di Bellocchio è un infinito ritratto di famiglia, un susseguirsi di pranzi e cene, nascite, matrimoni e funerali, litigi e rivelazioni tra quattro mura in penombra. Personaggi che, prima di ogni altra cosa, sono fratelli, genitori e figli: Marx può aspettare è l’ultima pagina di questo album in progress. Un nucleo numeroso dell’alta borghesia emiliana, padre avvocato e madre rigidamente cattolica. Malato di mente, il fratello maggiore Paolo muore giovane; Marco e Piergiorgio scelgono il cinema e la letteratura, Alberto diventa sindacalista, le sorelle Letizia (sordomuta) e Maria Luisa restano legate alla tradizione cristiana. Camillo, gemello di Marco, ha una carriera scolastica travagliata; timido e insicuro, soffre di non essere all’altezza dei fratelli; e nonostante si laurei all’Isef e trovi una sistemazione come insegnante, a 29 anni decide di lasciare la vita.

In gioventù Bellocchio avrà avuto spesso l’impressione di vivere in un film, giacché la sua famiglia sembra il parto fuori controllo di uno sceneggiatore; e forse è per questo che nella sua opera non vi è mai scarto di senso tra documentario e finzione (vedi il caso emblematico di Vincere!, 2009), ma la prosecuzione di un unico discorso con mezzi diversi. Se lo schema a interviste è consapevolmente tradizionale, l’audace novità di Bellocchio è l’impiego dei suoi film a soggetto come fonti dirette per l’analisi del reale. I due vasi sono perfettamente comunicanti. Le drammatiche crisi nervose di Paolo (col quale Camillo condivise la camera per anni) sono evocate da due scene di Salto nel vuoto (1980) e L’ora di religione (2002). Allo stesso modo, “Marx può aspettare” è la risposta ironica di Camillo a Marco, quando questi vuole coinvolgerlo nella lotta politica; la stessa frase viene pronunciata da Lou Castel in Gli occhi, la bocca (1982); e quarant’anni dopo diviene il titolo del documentario.

Su questa simbiosi verità/fantasia, Bellocchio innesta una corrispondente alternanza pubblico/privato. In un’ottica limpidamente marxista, l’istituzione famigliare viene spiegata attraverso le sovrastrutture della società in cui è inserita: il referendum Monarchia-Repubblica, l’Italia post-bellica degli anni ’50, il dialogo-scontro tra le due chiese cattolica e comunista (anche queste, in fondo, due immense famiglie). Come il grande critico cinematografico Padre Virgilio Fantuzzi (recentemente scomparso) afferma in un momento fondamentale, Marx può aspettare è una confessione religiosa, un atto di dolore collettivo e lungamente meditato (le riprese iniziano nel 2016). Marco rivela a sé stesso e ai due figli (che lo trafiggono di occhiate accusative) una lettera di Camillo che gli chiede di poter lavorare con lui nel cinema, ma non ricorda se gli ha mai risposto. Analogamente, Piergiorgio ammette di aver gettato via il biglietto d’addio di Camillo. Ma anche gli altri parenti non lesinano profonde autocritiche; e così la narrazione assume quasi l’aspetto di un romanzo giallo, col suo eterno quesito: chi è l’assassino? In una lingua sofferta e spezzata, Letizia nega il suicidio e resta caparbiamente legata alla tesi dell’incidente: parole che da un lato vorrebbero cancellare il peccato mortale del fratello, dall’altro inseguono un disperato bisogno di autoassoluzione. Ma in questa sequela di “non ricordo bene” e “non mi resi conto che”, spicca la testimonianza della sorella della fidanzata di Camillo, che con garbato sorriso sottolinea il deserto affettivo dell’intero clan Bellocchio in occasione del funerale.

Marx può aspettare sembra la versione borghese di Le voci di dentro di De Filippo: una famiglia dove chiunque è un potenziale colpevole, anche se nessuno lo è materialmente. Rei non di aver commesso il fatto, ma di non averlo commesso, di aver fatto poco o nulla per scongiurare una tragedia. Tuttavia, questo terribile verdetto viene solo accennato; e i titoli di coda sublimano ogni rimorso in una dolce illusione, un montaggio fotografico che crea un cortocircuito tra due epoche: Marco e Camillo, uno invecchiato, l’altro eternamente giovane, abbracciati in un unico spazio impossibile.

Marco attraversa un ponte a tarda sera, quando incrocia un ragazzo con la tuta Isef che corre e svanisce sullo sfondo. Quest’immagine finale torna a Buongiorno, notte: Moro sguscia via dal covo delle Brigate Rosse e vaga libero per le strade di Roma. Per Bellocchio, svelare la realtà equivale a reinventarla.



 


 Dante Albanesi (San Benedetto del Tronto, 1968). Docente di discipline cinematografiche e televisive. Scrive di cinema su riviste e siti web.