Il cinema di Bellocchio è un infinito ritratto di
famiglia, un susseguirsi di pranzi e cene, nascite, matrimoni e funerali,
litigi e rivelazioni tra quattro mura in penombra. Personaggi che, prima di
ogni altra cosa, sono fratelli, genitori e figli:
Marx può aspettare è l’ultima
pagina di questo album in progress. Un nucleo numeroso dell’alta borghesia
emiliana, padre avvocato e madre rigidamente cattolica. Malato di mente, il
fratello maggiore Paolo muore giovane; Marco e Piergiorgio scelgono il
cinema e la letteratura, Alberto diventa sindacalista, le sorelle Letizia
(sordomuta) e Maria Luisa restano legate alla tradizione cristiana. Camillo,
gemello di Marco, ha una carriera scolastica travagliata; timido e insicuro,
soffre di non essere all’altezza dei fratelli; e nonostante si laurei
all’Isef e trovi una sistemazione come insegnante, a 29 anni decide di
lasciare la vita.
In gioventù Bellocchio avrà avuto spesso
l’impressione di vivere in un film, giacché la sua famiglia sembra il parto
fuori controllo di uno sceneggiatore; e forse è per questo che nella sua
opera non vi è mai scarto di senso tra documentario e finzione (vedi il caso
emblematico di Vincere!, 2009),
ma la prosecuzione di un unico discorso con mezzi diversi. Se lo schema a
interviste è consapevolmente tradizionale, l’audace novità di Bellocchio è
l’impiego dei suoi film a soggetto come fonti dirette per l’analisi del
reale. I due vasi sono perfettamente comunicanti. Le drammatiche crisi
nervose di Paolo (col quale Camillo condivise la camera per anni) sono
evocate da due scene di Salto nel
vuoto (1980) e L’ora di religione
(2002). Allo stesso modo, “Marx può aspettare” è la risposta ironica di
Camillo a Marco, quando questi vuole coinvolgerlo nella lotta politica; la
stessa frase viene pronunciata da Lou Castel in
Gli occhi, la bocca (1982); e
quarant’anni dopo diviene il titolo del documentario.
Su questa simbiosi verità/fantasia, Bellocchio
innesta una corrispondente alternanza pubblico/privato. In un’ottica
limpidamente marxista, l’istituzione famigliare viene spiegata attraverso le
sovrastrutture della società in cui è inserita: il referendum
Monarchia-Repubblica, l’Italia post-bellica degli anni ’50, il
dialogo-scontro tra le due chiese cattolica e comunista (anche queste, in
fondo, due immense famiglie). Come il grande critico cinematografico Padre
Virgilio Fantuzzi (recentemente scomparso) afferma in un momento
fondamentale, Marx può aspettare
è una confessione religiosa, un atto di dolore collettivo e lungamente
meditato (le riprese iniziano nel 2016). Marco rivela a sé stesso e ai due
figli (che lo trafiggono di occhiate accusative) una lettera di Camillo che
gli chiede di poter lavorare con lui nel cinema, ma non ricorda se gli ha
mai risposto. Analogamente, Piergiorgio ammette di aver gettato via il
biglietto d’addio di Camillo. Ma anche gli altri parenti non lesinano
profonde autocritiche; e così la narrazione assume quasi l’aspetto di un
romanzo giallo, col suo eterno quesito: chi è l’assassino? In una lingua
sofferta e spezzata, Letizia nega il suicidio e resta caparbiamente legata
alla tesi dell’incidente: parole che da un lato vorrebbero cancellare il
peccato mortale del fratello, dall’altro inseguono un disperato bisogno di
autoassoluzione. Ma in questa sequela di “non ricordo bene” e “non mi resi
conto che”, spicca la testimonianza della sorella della fidanzata di
Camillo, che con garbato sorriso sottolinea il deserto affettivo dell’intero
clan Bellocchio in occasione del funerale.
Marx può
aspettare sembra la versione borghese di
Le voci di dentro di De Filippo:
una famiglia dove chiunque è un potenziale colpevole, anche se nessuno lo è
materialmente. Rei non di aver commesso il fatto, ma di non averlo commesso,
di aver fatto poco o nulla per scongiurare una tragedia. Tuttavia, questo
terribile verdetto viene solo accennato; e i titoli di coda sublimano ogni
rimorso in una dolce illusione, un montaggio fotografico che crea un
cortocircuito tra due epoche: Marco e Camillo, uno invecchiato, l’altro
eternamente giovane, abbracciati in un unico spazio impossibile.
Marco attraversa un ponte a tarda sera, quando
incrocia un ragazzo con la tuta Isef che corre e svanisce sullo sfondo.
Quest’immagine finale torna a
Buongiorno, notte: Moro sguscia via dal covo delle Brigate Rosse e vaga
libero per le strade di Roma. Per Bellocchio, svelare la realtà equivale a
reinventarla.
Dante Albanesi
(San Benedetto del Tronto, 1968). Docente di discipline cinematografiche e
televisive. Scrive di cinema su riviste e siti web.