The Good Intentions
di Beatrice Segolini e Maximilian Schlehuber (Italia,
2016, 85’)
Se è vero che ogni famiglia è una rappresentazione
che esclude il pubblico, The Good
Intentions inizia con dei pupazzi in un teatrino, surreale presepe
illustrato dalla voce della regista: Beatrice è una bambolina, i fratelli
Stefano e Michele sono un toro e un cavallo, la madre e il padre sono due
dinosauri. Il documentario diviene l’occasione per infrangere la quarta
parete di questo palcoscenico segreto, scalfire il rimosso attraverso il
potere salvifico della parola, spesso coadiuvata da sbiaditi filmini di
famiglia. Uno stile che ha prodotto disturbanti capolavori come
Tarnation di Jonathan Caouette e
Must Read After My Death di Morgan
Dews, fino all’opera di Caterina Klusemann o a
Un’ora sola ti vorrei di Alina
Marazzi.
Sin dalla prima scena, ci sembra già di conoscere
tutti i personaggi, ma in realtà stiamo riconoscendo noi stessi, poiché
(volenti o nolenti) non siamo altro che ennesime variazioni del millenario
archetipo della famiglia cristiana occidentale. Un padre silenzioso,
assente, brutale. Una figlia ancora offesa, che non riesce e non vuole
dimenticare. Michele, forse più per autodifesa che per reale convinzione,
ostenta mitezza e sorriso. Stefano, disadattata reincarnazione del padre,
rifiuta definitivamente ogni contatto fisico col suo “doppio”, reagendo con
la fuga o le grida ad ogni sforzo di recuperare il passato. La madre, forse
l’elemento più ambiguo, minimizza ogni evento, stolidamente convinta che il
tempo abbia sopito ogni dolore. Ai margini del quintetto si pone il secondo
regista Schlehuber, ospite discreto senza diritto di parola. Su tutto
questo, gravitano due giganteschi buchi neri da non avvicinare mai: le
violenze domestiche del padre, una sorellina morta da piccola. Corollario
del duplice trauma, i video-ricordo in VHS sovrascritti dal padre con le
partite di basket dei figli maschi: lampante esempio di lutto non elaborato,
di affetto distorto. Ciò che resta del passato è un involontario montaggio
sperimentale che salta avanti e indietro, concreta metafora di una famiglia
frantumata.
Solo verso la fine, dopo essere rimasto un sinistro
fantasma per metà film, il padre compare nel suo maneggio: è un ex fantino,
energico e altero, abituato a domare animali che gli somigliano. Qui, in un
confronto notturno in una stalla, The
Good Intentions raggiunge un effetto di realtà disturbante e raro.
Beatrice è una figurina inghiottita in un enorme giaccone. Tenta di
imbastire un dialogo, riconciliarsi con la propria infanzia. L’uomo ribatte,
cambia discorso, divaga, attacca. I due non si guardano, fumano inquieti,
vagando in cerchio come cavalli smaniosi di fuggire. Due età e due ruoli che
non trovano un terreno comune. Dove lei dice “educazione”, lui sembra
intendere “addestramento”. Ma ciò che davvero stupisce in questa scena è
che, mentre il padre rimane se stesso come una pietra, Beatrice sembra
davvero essersi persa: nel volgere di pochi minuti ha dimenticato le sue
“buone intenzioni” di regista ed è rimasta prigioniera del tempo, ancora
un’ultima volta incatenata al proprio antico e odiato ruolo di figlia.
Per The Good
Intentions non esistono buone o cattive intenzioni, ma solo azioni. Le
persone che ci vivono accanto percepiscono soltanto i nostri gesti fisici, e
non le pulsioni interne che li hanno provocati. Quando non vengono
esternate, le nostre intenzioni rimarranno sempre invisibili e le
conosceremo soltanto noi, come un’indulgenza plenaria nella quale siamo
contemporaneamente penitenti e confessori.
Dante Albanesi
(San Benedetto del Tronto, 1968). Docente di discipline cinematografiche e
televisive. Scrive di cinema su riviste e siti web. |