Critica doc
   A cura di Dante Albanesi


Gaza Hospital

di Marco Pasquini (2009, 84’)

 

Convinto che la bellezza ci salverà, sempre e ovunque, Marco Pasquini converte ogni cosa in una bella inquadratura. E lo fa nel luogo dove ogni esercizio formale sembrerebbe assurdo. L’imponente Gaza Hospital di Beirut era il secondo ospedale più importante del Libano, principale soccorso per i profughi palestinesi, ma anche per i libanesi più poveri e gli immigrati dei paesi confinanti. La sua architettura e la sua posizione urbanistica lo rendono testimone centrale del massacro di Sabra e Chatila. Dopo la chiusura nel 1986, l’edificio rimane abbandonato a se stesso. Stanze di ricovero e corsie diventano case, creando una comunità sempre più numerosa, fino a rendere il Gaza Hospital un vero proprio campo profughi.

“A volte raccontare non è come mostrare”, afferma uno degli intervistati. E l’approccio di Pasquini è l’esatto contrario di quel “grado zero”, di quella scrittura invisibile a cui tanti documentari “di guerra” ci hanno abituato. Qui il cinema non abbassa mai la guardia: uno stile ricco redime un universo povero, replicando quella narrazione polifonica che era già in Hair India di Marco Leopardi e Raffaele Brunetti, di cui Pasquini ha curato la fotografia. Come in un thriller psicologico, le camere da letto sono scrutate dall’alto nella penombra. Mentre una famiglia cena nel tinello, sulla parete ruota minacciosa l’ombra del ventilatore. Come in un poliziesco, complessi carrelli pedinano i personaggi lungo scale sgretolate e anguste insenature, con una lucida attenzione al dialogo tra figure e sfondo e ai molteplici piani in cui si compone la scenografia. Come un pittore romantico, Pasquini si affida consapevole ad una “estetica delle rovine”, indagando il fascino malinconico di un ospedale ridotto in macerie, la fotogenia quasi tattile di un androne tormentato di graffiti, di un gatto sul davanzale, di un telo di plastica percosso dal vento. Fino alla struggente sequenza finale, con i filmini anni ’80 dell’ospedale proiettati lungo i corridoi, fantasmi di un incredibile passato.

Nel Gaza Hospital non sei mai completamente “fuori” o “dentro”. C’è sempre uno scorcio da cui intravedere l’altro lato del palazzo, o una crepa sul muro che svela un’immensa metropoli. C’è sempre una porta socchiusa, o uno stipite che l’ha perduta, a suggerirci l’ennesima compagnia e l’allegra confusione che la fa sentire viva. È la forza di un mondo basato sulla necessità, dove ogni privazione è sublimata dal gioco: una partita a carte a lume di candela, una partita a basket con un pallone di calcio, una giostra scalcinata che sparge la sua allegra cantilena tra le baracche. Un mondo dove Pasquini riconosce un disperato bisogno di pulizia, di ordine, simboleggiati da quel pennello che spalma il suo bianco candido su un intonaco sopravvissuto a giorni atroci. E soprattutto da Youssef, barbiere palestinese che dal 1987 abita nel cortile dell’ospedale. La sua bottega, il “Saloon Al-Fidan”, è stata distrutta due volte, suo figlio è stato ucciso a 13 anni da un cecchino. Come reagire a tutto questo? Riparando ancora una volta la vecchia insegna che da una vita introduce al suo Saloon. Perché in un mosaico ormai perduto, almeno un frammento possa tornare al suo posto.



 


 Dante Albanesi (San Benedetto del Tronto, 1968). Docente di discipline cinematografiche e televisive. Scrive di cinema su riviste e siti web.