Critica doc
   A cura di Dante Albanesi


34° Torino Film Festival

18-26 novembre 2016

 

Houses Without Doors

di Avo Kaprealian (Siria/Libano, 2016, 90’)

La guerra vista da un balcone. Come in una famosa sequenza de Il pianista di Polanski, Kaprealian spia in campo lungo la vita quotidiana del quartiere Al Midan, ad Aleppo. Il traffico, l’avanzare guardingo dei passanti, un funerale, le sirene della polizia, le esplosioni notturne. Ma anche inattese epifanie, come il battito d’ali di una colomba. In controcampo alla follia che si agita all’esterno, l’inquieta normalità della casa: le giornate davanti al televisore, i giochi dei bambini, le serate con i parenti. Il padre rimprovera il regista per la temerarietà delle riprese; la madre ricorda il giorno in cui non trovò più la porta di casa, sepolta dalle macerie. Ad Al Midan vivono molti discendenti dei sopravvissuti al genocidio armeno in Turchia; e un secolo dopo, la storia si ripete con le migliaia di siriani sfollati. Kaprealian incrocia i contenuti del reportage di guerra con gli stilemi del saggio sperimentale e del filmino di famiglia, tra sovrimpressioni e fuori fuoco. Un cinema in primissima persona, estremamente “in diretta”, nel quale irrompono frammenti di altri film (El Topo di Jodorowsky), simili a rifugiati di un altro paese. Perché un documentario non può spiegare il presente senza dialogare con le immagini passate. Come una casa senza porta non può chiamarsi casa.

 

Nana

di Luciana Decker (Bolivia, 2016, 65’)

Quattro anni di riprese per raccontare quarant’anni di Hilaria e una vita da domestica nella famiglia della regista, fino all’agognato e forse traumatico trasloco nella sua nuova casa. Un’indagine dei sentimenti che non si concede mai una figura intera, scegliendo la prossimità estrema come visione del mondo. L’amore si nutre di dettagli, tremolanti nel rettangolo della camera a mano: le mani in penombra che preparano il pranzo e raccolgono carote, le gonne lunghe e variopinte, il cappello nero e i capelli scuri. La radio eternamente su musiche andine. E tutt’attorno, un immenso fuoricampo di stanze, voci e parenti che non verranno mai svelati; come la nonna di Luciana, gelosa dell’inscalfibile relazione privata tra la nipote e la sua tata. Nana è un documentario per caso: le prime immagini nascono senza intenzioni precise, come schietta conseguenza fisica dell’affetto, e solo in un secondo momento diventano cinema, scoprendo un territorio comune dove convivono soggettivismo estremo e ricerca antropologica. Un delicato racconto che esplora la remota vicinanza tra due persone: vivere tra le stesse mura, ma abitare pianeti diversi.

 

Spectres Are Haunting Europe

di Maria Kourkouta e Niki Giannari (Grecia/Francia, 2016, 99’)

Idomeni, confine tra Grecia e Macedonia, inizio 2016. Un piano-sequenza fisso registra attonito un esodo infinito. L’arrivo, tra la pioggia incessante e il fango viscido, dei profughi dall’Iran, dalla Siria, dal Bangladesh, in maggiorana curdi, bloccati qui dopo la chiusura delle frontiere. In un approccio quasi da videoarte, l’immobilità politica e sociale si fa immobilità della cinepresa. La spossatezza di un uomo senza patria diviene la fatica dello sguardo di fronte a estenuanti inquadrature statiche. Più di ogni analisi condita di slogan e accordi internazionali, un’immagine ad altezza terra colpisce nel segno: la lenta processione delle scarpe dei migranti, tutte diverse tra loro, slacciate, bucate, fuori stagione, strette o troppo larghe, sempre sul punto di sparire nella melma. Ma a poco a poco, in un approcciarsi alla realtà in bilico tra timore e rispetto, i campi lunghi si fanno campi medi e quasi primi piani: come in un telegiornale senza giornalisti, e senza azzardare la minima ingerenza, Kourkouta e Giannari iniziano a seguire i racconti, le discussioni e i litigi tra i profughi. Mentre il coro “Open the border” sfocia quasi in supplica. E negli ultimi minuti, un mirabile cambio di stile: in bianco e nero, 16mm formato 4:3, la regia si scioglie nella camera a mano, visita le tende inumidite e i giochi dei bambini, felici nonostante tutto. Fuori campo, una poesia di Giannari riloca questo micro-universo in una nuova dimensione, da una cronaca transitoria ad un epos millenario e tipicamente greco, fatto di cicliche odissee e tormentose anabasi. 

 

A pugni chiusi

di Pierpaolo de Sanctis (Italia, 2016, 74’)

Lou Castel pronuncia la parola “osso” e subito dopo ne trova uno per terra. Per lui non è un caso. Avanza in bilico tra le rive di uno stagno, raccoglie frasche e bulloni, scaraventa via un carrello portaabiti. Si meraviglia vedendo per la prima volta la sua vecchia casa da lontano. Ogni gesto ha un significato, è un interazione corporea col reale e soprattutto una sua indefinita “ricreazione”. Una Roma tutta in campo lungo, tra le rovine attorno ai quartieri Ostiense e San Lorenzo, in un’affascinante archeologia industriale che sembra l’eredità dell’ennesima ciclica invasione barbarica. Il protagonista è quasi sempre di spalle e sempre solo, pedinato in carrello a seguire come un accattone pasoliniano. Più che un’intervista, un flusso di coscienza: il girovagare fisico si trasforma in vagabondaggio della parola, attraverso il cinema degli anni ’60, Bellocchio, Grazie zia, Fassbinder, i western “alimentari”, il Francesco d’Assisi con Liliana Cavani, la militanza politica. Lou Castel trascorre la propria carriera a tentare di distruggerla, nella contraddizione del divo che rifiuta la fabbrica di immagini capitalista del cinema, ma che allo stesso tempo la riconosce come prezioso strumento di emancipazione delle masse. La scena in un grigio multisala, dove il bigliettaio gli consiglia la visione di Belle & Sebastien, è di un’amarezza infinita. Ma quando, lungo un cupo corridoio, vediamo Castel che attacca un’inutile e disfatta corsa, agitando la vecchia sciarpa marrone e addentandola ringhioso, sappiamo finalmente che l’Alessandro de I pugni in tasca lotta ancora insieme a noi.

 

Hidden Photos

di Davide Grotta (Italia, 2016, 68’)

Nhem En ha 16 anni, quando diventa il fotografo ufficiale della prigione di Tuol Sleng (nota anche come Security-21), in Cambogia. Qui, dal 1975 al ’79, durante il regime nazionalista dei Khmer Rossi, circa 17.000 persone vengono registrate e fotografate: una prassi burocratica prima della sistematica tortura e uccisione. Da Tuol Sleng si conoscono solo otto sopravvissuti: una terrificante vicenda narrata nel corto The Coscience of Nhem En di Steven Okazaki (2008). Oggi Nhem En ha incredibilmente riciclato il proprio passato oscuro in un business che lega il rilancio economico del suo paese ad un progetto editoriale incentrato sulla propria opera (e poco elegantemente chiamato “Fotocamera della morte”), nel quale i ritratti dei condannati sono addirittura sfruttati in cartolina. A questo ambiguo personaggio (che ricorda il creatore di sedie elettriche Fred Leuchter nel beffardo Mr. Death di Errol Morris), Davide Grotta pone come netto contraltare il giovane fotografo Kim Hak, impegnato in un progetto visuale di recupero dei siti meno noti della Cambogia. E il fulcro del film è proprio nell’incontro tra Hak e En, con il vecchio professionista che sciorina cifre e mirabolanti guadagni basati sulla curiosità turistica per il genocidio dei Khmer, mentre En maschera a fatica il proprio sconcerto. In questa trama principale, Grotta innesta abilmente due situazioni esterne. La prima è la struggente storia dei molti cambogiani che durante le persecuzioni sono costretti a nascondere le proprie foto, a sotterrarle dentro involucri di plastica, per nascondere al regime le proprie identità e soprattutto il proprio status sociale. La seconda è un ritratto muto di Chhouen Yen, zelante donna delle pulizie che ogni giorno si prende cura di un bizzarro museo delle cere nel Cambodian Cultural Village. La risultante di questi percorsi è una riflessione concettuale sul destino delle immagini, sul rapporto tra realismo riproduttivo e sua rilettura politica; e sulla capacità di un medium “neutro” come la fotografia di veicolare significati diversi in tempi diversi. Sebbene immutabile, ogni immagine si adatta crudelmente agli infiniti futuri che si trova ad abitare.

 

Ab urbe coacta
di Mauro Ruvolo (Italia, 2016, 75’)
Non trovi monumenti in questa Roma. Solo ruggine e lamiere, svincoli di periferia e lingue incomprensibili. Mauro Bonanni, proprietario di un’officina di autodemolizioni a Tor Pignattara, abita un universo pesantemente maschile e visceralmente romano, tra grigliate serali e sfide ubriache al karaoke, con amici che spesso deride, ma ai quali è attaccato in modo quasi animalesco. L’unica vera passione sono le gare automobilistiche a cui partecipa il figlio. Il suo razzismo è una cosa strana, come tutte le ossessioni che nascono dallo stomaco e non crescono mai in idea. Odia l’“invasione” degli extracomunitari, eppure nessuno dei suoi operai è italiano; esercita un elaborato repertorio di insulti verso ogni tipo di straniero, eppure è fortemente attratto dall’Africa. Ma un tuffo in piscina diviene un vortice di ricordi, nel quale rimane a galla la paura del tempo, che brucia e vola via come fumo di scarico. Con gli acciacchi dell’età, Mauro si sente prossimo alla rottamazione. E il suo, più che un viaggiare, è un evadere: dopo aver dichiarato per la prima volta il proprio affetto alla madre, parte per Cotonou, in Benin, a far visita ad un suo ex-dipendente. Si perde in un’esplosione di colori e suoni, spazi sorridenti e luminosi; mentre in voce over il poeta camerunense Ndjock Ngana ci spiega che vivere una sola vita, in una sola città, è prigione. E qui, in pochi fuggevoli primi piani di fronte all’oceano, Mauro pare finalmente libero.



 


 Dante Albanesi (San Benedetto del Tronto, 1968). Docente di discipline cinematografiche e televisive. Scrive di cinema su riviste e siti web.