UNIVERSITA DEGLI STUDI DI ROMA"LA SAPIENZA"

FACOLTA DI LETTERE E FILOSOFIA

Tesi in: STORIA E CRITICA DEL CINEMA

Joris Ivens

Tre modi di fare cinema-documentario:

Energia e Campagna

L’Indonesia chiama

Io e il Vento

Candidata

Evelyn Parretti

 

RELATORE: Prof. Vittorio Caldiron

CORRELATORE: Dott. Sebastiano Lucci

 

 

INTRODUZIONE

L’Olanda è stata una regione di grande sviluppo cinematografico. Ancor prima che nascesse il cinema fu una delle patrie della lanterna magica, di scienziati ed inventori che poi ne svilupparono qualità e spettacolarità. Oggi possiamo dire che il grande campo operativo del cinema olandese è il documentario, ed è proprio Joris Ivens a consacrare quest’alta tradizione documentaristica grazie alle sue opere: innumerevoli testimonianze del secolo passato, importanti documenti storici di pressoché tutti gli eventi "rivoluzionari" verificatesi sulla Terra.

Joris Ivens è spesso accostato all’immagine dell’Olandese volante (i suoi innumerevoli viaggi), e a quella del cineasta militante,(spesso i suoi film si sono occupati di rivoluzioni, lotte per l’indipendenza), ma il suo impegno politico non è mai andato aldilà dell’impegno cinematografico. Queste due sistemazioni dimenticano però che Ivens è prima di tutto un grande poeta delle immagini.

La sua opera abbraccia quasi un secolo ed Ivens è un artista che è riuscito ad operare come documentarista in quasi tutti i settori dell’"insieme documentario", realizzando film di genere industriale, a quelli di carattere sociale, passando per documentari sperimentali, scientifici, didattici, commissionati e di guerra.

Con questo lavoro si è voluti tracciare, attraverso tre film, Energia e Campagna (Power and the Land), L’Indonesia chiama (Indonesia Calling) e Io e il vento (Une Histoire de Vent), un itinerario cinematografico diverso. Questi tre documentari realizzati in tre modalità dissimili segnano una svolta o ancor più una maturazione del regista.

Nella vita di Ivens si possono individuare tre momenti salienti per la sua maturazione cinematografica: il soggiorno in Germania dal 1923 al 1926, la visita nel 1930 nell’ex Unione Sovietica, e nello stesso anno il viaggio a Londra, dove poté costatare l’importanza della scuola documentaristica britannica fondata da John Grierson.

I documentari che Ivens ci ha fatto "vivere" attraverso delle immagini che nella storia del cinema sono unici nel loro genere e percorrono un iter cinematografico assai complesso. All’inizio incomincia ad interessarsi al cinema attraverso il documentario sperimentale Il ponte (De Brug), Pioggia (Regen), poi percorre le strade del documentario industriale, Philips-Radio(id.), Energia e Campagna, sino ad approdare al documentario di guerra, Terra di Spagna (Spanish Earth), I 400 Milioni (The 400 Million) il quale non ha niente a che vedere con i famosi cinegiornali che venivano proiettati nei cinematografi prima del film in programma. Una buona parte del suo lavoro è consacrato alle lotte per le rivoluzioni dei popoli oppressi L’Indonesia chiama, Il 17° parallelo (Le 17ème Parallèle) intercalando con film come La Senna ha incontrato Parigi (La Seine a rencontré Paris) o Il Maestrale (Pour le Mistral), che s’iscrivono nel genere così denominato cinepoema e che non sono da considerare da meno.

Ma con questo è bene sottolineare che non si sta facendo un lavoro di selezione, di raggruppamenti per genere perché sarebbe inattuabile sia a causa dell’originalità di ogni suo film che all’impossibilità di separare un lavoro, il quale gode di una certa continuità storica e personale.

Definizione del termine: "documentario"

Prima di continuare il nostro discorso sul cinema documentario e delineandone a grandi linee le varie teorie, i registi e gli eventuali film, sarebbe lecito darne una definizione.

Storicamente la parola "documentario" appare per la prima volta in una rassegna del New York Sun nel febbraio del 1926. Fu John Grierson ad utilizzarla parlando di Moana(i.d.) di Robert Flaherty, e forse riprendendo quella parola "documentaire" usata dai critici francesi per designare i film di viaggi. Ma sarà soprattutto dopo il 1930 che critici ed artisti parleranno di documentario, facendo riferimento ai lavori di Grierson, Flaherty, Ivens, ed altri artisti, come testimoniano diverse pubblicazioni dell’epoca. Sfortunatamente questo genere cinematografico nel corso degli anni non è sempre stato considerato forma d’arte.

A questo atteggiamento Ivens si "ribella" dichiarando che "il documentario è spesso sottovalutato dalla critica e preso come il fratello povero del cinema. Il documentario non è solo documentazione, è dialogo con il pubblico. Il dialogo che il documentarista ha con il pubblico è più profondo di quello che stabilisce un regista di film. E’ più facile raccontare una storia che interessare commuovere descrivendo e penetrando un’esperienza della vita reale. Nel documentario si deve fare appello al contempo all’intelletto e al cuore, si deve essere lucidi ed emozionanti(1976)".

Nel primo decennio del secolo scorso avviene una prima distinzione tra documentario e film di finzione a soggetto. I resoconti di viaggio, i film spettacolari, i cinegiornali vennero inclusi nella sfera del genere documentario.

Negli anni venti però inizia a delinearsi una diversa situazione, con le polemiche contro le produzioni hollywoodiane e di conseguenza i primi manifesti programmatici del documentario.

Un apporto importante è dato dalla sviluppo tecnologico delle apparecchiature cinematografiche, rendendo queste ultime più maneggevoli. Già nel 1919 gli operatori di documentari utilizzavano una leggera cinepresa Akley e in seguito nel 1922 la Kodak immetteva nel mercato una pellicola 16mm, e l'anno dopo entra in commercio la Pathé-baby.

Del cinema non a soggetto (come il documentario viene anche nominato), quattro grandi nomi si differenziano dagli altri: Robert Flaherty (1884-1951), Dziga Vertov(1896-1952, John Grierson (1898-1972) e Joris Ivens (1898-1989).

L’unico riconosciuto maestro per Joris Ivens è Flaherty: "Grazie a Flaherty – ha detto Ivens – ho scoperto che il documentario poteva avere lo stesso valore creativo del cinema di finzione". Anche se di filosofie diverse, Flaherty era un naturalista ed Ivens un "rivoluzionario", il regista olandese afferma che Flaherty è il padre di tutti i documentaristi, che è stato lui ad insegnarci il rispetto dell’uomo, per il lavoro dell’uomo. "Se l’influenza di Flaherty è presente nei miei primi film, in seguito è avvertibile quella di Vertov e della scuola realista".

Joris Ivens e le avanguardie artistiche degli anni Venti.

Prima di inserire Ivens nel contesto del cinema d’avanguardia sarebbe legittimo darne una definizione.

"Il cinema d’avanguardia è un cinema che tende a suscitare l’interesse e la reazione dello spettatore. Per me il cinema d’avanguardia è quello che prende l’iniziativa del progresso e lo conserva alfiere della verità cinematografica; il cinema indipendente ha, in effetti, una capacità autocritica che lo spinge al progresso, mentre quello industriale non ha che una critica di un pubblico male educato: questa non apporta che il progresso tecnico, quello arricchisce il progresso dello spirito".

Alla fine degli anni Venti si presenta come cineasta dell’avanguardia formalista e uno dei fondatori della Filmliga di Amsterdam (uno dei primi cineclub al mondo sorto nel 1927, data del loro primo manifesto).

Un anno prima, un problema di censura incitò l’iniziativa dei cineclub, ed un film in particolare per quanto riguarda la Filmliga, La madre (Mat’) di Pudovkin.

Joris Ivens, già nel 1912 aveva fatto i suoi primi passi nel misterioso mondo del documentario negli anni venti, con il suo primissimo cortometraggio Freccia Ardente (De Wigman), una storia western completa di cast familiare.

Ivens inizia ad entrare in contatto con le avanguardie artistiche quando nel 1922, a 24 anni, si reca a Berlino per iniziare i suoi studi universitari di fotochimica a Charlottenburg. Il movimento espressionista sorto agli inizi del XX secolo, trovò in Germania il suo terreno più fertile dove riuscì a provocare ed a stimolare pubblico ed artisti. Gli espressionisti sostituivano alla descrizione oggettiva della realtà la comunicazione di sentimenti soggettivi, scegliendo modalità stilistiche esasperate, spesso deformate, procurando al pubblico intensi effetti emotivi. Ad esempio il dipinto L’urlo di Edvard Munch dove queste due modalità ben si esprimono.

Berlino in quel periodo è un brulicare di nuove idee, di nuovi movimenti artistici, è una città dove l’Espressionismo e il Dadaismo sono nel pieno del loro fervore.

Dalla vivace attività politica, a quattro anni dall’armistizio, dalle varie ribellioni e i frequenti conflitti, tutti alla ricerca di una nuova forma di democrazia, si vennero a creare diverse attività culturali.

Ivens poté in quel suo soggiorno berlinese dedicarsi oltre che ai suoi studi, ai vari interessi (teatro, concerti, mostre) e vivere dentro quel grande fervore artistico. Le più importanti innovazioni riguardarono l’arte pittorica, l’architettura, la musica, il cinema, la poesia, ed il teatro. Il teatro espressionista puntò ad un approccio globale che coinvolgesse le tecniche di messa in scena, scenografia e regia per potenziare gli effetti dell’impatto visivo.

Saranno proprio le prime importanti opere dei cineasti espressionisti tedeschi, viste durante il suo soggiorno a Jena dove lavorava per la ditta Zeiss, che colpirono il suo occhio non ancora critico, ma solo da "normale spettatore". Soprattutto due opere L’ultima risata (Der letze), di Friedrich Wilhelm Murnau del 1924 e La via senza gioia (Die freudlose Gasse) di Georg Wilhelm Pabst realizzato nel 1925.

Ivens si mette a confronto con un periodo di avanguardia cinematografica di grande rilievo. In effetti al suo ritorno in patria cerca una sua strada e dopo qualche anno si cimenta nella realizzazione di cortometraggi a carattere sperimentale: Il ponte del 1928 documenta le funzioni di un ponte ferroviario di Rotterdam, oggetto di una ricerca abile e ben strutturata, anche se ancora troppo sperimentale. E poi Pioggia del 1929 descrive un giorno di pioggia olandese. Lo spettatore percepisce la presenza umana anonima di questo fluttuante "ciné-poéme", come viene definito dalla critica francese, grazie agli ombrelli e gli impermeabili, ma ancora non viene inquadrato un solo viso.

A proposito di Il ponte Balàzs osserva che "la costruzione di ferro si dissolve in immagini immateriali inquadrate in cento modi diversi. Basta il fatto che questo ponte possa essere visto in tanti modi per renderlo in un certo senso irreale. Esso non ci appare come l’opera concreta degli ingegneri che lo costruirono ma come una serie di curiosi effetti ottici".

Quanto a Pioggia constata che "le splendide immagini invensiane della pioggia non potranno mai esser viste nella realtà da un’altra persona durante un temporale (…) non possiamo immaginare un oggetto che esista anche indipendentemente dalle immagini stesse".

La macchina da presa riproduce fedelmente la realtà, ogni goccia della pioggia che cade dal cielo e non qualche marchingegno studiato in un teatro di posa. Il problema del rapporto della realtà, nella sua esigente ricerca linguistica, fotografica e ritmica, lo porta ad un soggettivismo quasi esasperato, ad una forma ideologica di fuga dalla realtà.

Il ponte è immediatamente riconosciuto come un capolavoro da critici internazionali e colleghi registi ed Ivens accolto come il più famoso regista dell’avanguardia olandese. Analizzando, il film è girato solo un anno dopo Études des mouvements, corto documentario sperimentale grazie al quale Ivens studia i movimenti, le varie inquadrature, le angolazioni differenziate a rendere l’oggetto di studio non una monoforma.

Le esperienze sperimentali di montaggio ritmico non cessano, Ivens le mette ancora a frutto in Zuiderzee (id.) del 1930. "Avendo cominciato con la sperimentazione formale ed estetica dell’avanguardia, il mio problema è sempre stato che cosa dire, dopo che avevo imparato a dire".

Dopo questo periodo di sperimentazione gli viene data occasione di girare Philips-Radio, esempio di documentario su commissione che s’inserisce nel genere industriale. Dopo questa esperienza che gli aveva aperto gli occhi sul le restrizioni che la commissione impone sui registi, Ivens attua una svolta: Borinage (Misère au Borinage). "Ho girato a 180° gradi nel 1933, nel Borinage. Ho preso parte per la classe operaia. Io penso che ognuno nella propria vita ha avuto un Borinage che lo ha fatto cambiare. Prima di questo film, mi occupavo di ricerche estetiche. Ed ho capito che era un vicolo cieco; bisogna che l’intellettuale abbia a che fare con la vita. Può aiutare l’artista, mettendogli dei limiti".

I suoi documentari sono anche impressi di politica come il suddetto Borinage, che è forse uno dei primi film sindacali che sia mai stato girato. Ivens in alcuni sui film quasi sempre fa dominare la sua arte dalla politica ad esempio I 400 Milioni ed ancor di più la sua politica diventa arte ad esempio Terra di Spagna. Oppure riesce anche nel caso di Energia e Campagna di combinare politica e poesia in un documentario di rara bellezza e forza.

"Non si può sostenere in modo dogmatico che ogni film deve raggiungere il massimo della qualità artistica. Deve avere soprattutto la qualità, la forza di stimolare gli uomini a pensare al problema trattato nel film deve costringerlo a prendere una posizione. La visione di un film dovrebbe diventare, se possibile un’esperienza di vita".

Questo lavoro si propone di analizzare tre modi del suo "fare" cinema documentario. Con questo s’intende che Ivens, come detto all’inizio, sperimenta diverse modalità.

Il lavoro è diviso in tre capitoli, analizzando nel primo il documentario industriale con Energia e Campagna nel quale si confronta con la committenza, i non-attori e il problema della ricostruzione delle scene.

Nel secondo capitolo si affronta la questione del cinema militante con un documentario che ha segnato sia Ivens stesso che il cinema australiano e la Storia dell’Indonesia: L’Indonesia chiama. Attraverso anche le sue metodologie di lavoro si descrive un panorama dei suoi film "rivoluzionari".

In ultimo, si passa ad un’analisi di Io e il vento, film che s’iscrive tra l’immaginario e la realtà, una sorta di "cinepoema" nel quale Ivens maestralmente combina la poesia con la messa in scena della realtà. Attraverso quest’ultima opera, si cerca anche di analizzare il suo rapporto con la Cina. Io e il vento è la testimonianza di come Joris Ivens a distanza di sessant’anni dall’inizio della sua carriera cinematografica, riesce ancora a rinnovarsi.

Per Joris Ivens, maestro incontestabile delle immagini e del cinema al servizio dell’uomo, i documentari sono stati la sua ragione di vita, come lui stesso esordisce durante un dibattito in un cineclub italiano nell’aprile del 1951: "Il mio problema è d’essere dove succede qualcosa d’importante per un futuro migliore del mondo".

Oggi è difficile dire se i suoi documentari sono riusciti nell’intento di migliorare il mondo, ma di sicuro di mondo ne hanno fatto vedere.