Accademia Internazionale per le Arti e le Scienze dell’Immagine

Anno accademico 2005-2006

Laurea in

Produzione audiovisivi

Titolo della tesi

La malattia dell’arcobaleno – il cinema di Luigi DI Gianni

Autore: Simone Del Grosso

Relatore: Antonella Grassi

 

Correlatore: Angelo Moscariello

 

 

 

 

Estratto della tesi:

INTRODUZIONE

 

Luigi di Gianni è un regista napoletano che vive e lavora a Roma sin dagli anni ‘50, quando inizia ad occuparsi di cinema-documentario, e in particolare di quella forma documentaria che nasce dall’incontro tra le scienze antropologiche e la pratica filmica catalogata come film-etnografico.

I lavori dell’autore rappresentano, tra le altre cose, una delle più organiche testimonianze sulla cultura subalterna del Mezzogiorno d’Italia, fotografata in una fase di violento trapasso storico quale fu il ventennio che va dal 50’ fino ai primi anni 70’. Le opere realizzate dal regista tra queste due decadi, documentano fenomeni di straordinario rilievo sociale e culturale, dal lamento funebre carico di echi pagani in Lucania alla ritualità sotterranea delle anime del Purgatorio nelle cripte di Napoli, dal materico culto delle pietre di Raiano in Abruzzo agli arcaici pellegrinaggi fra le montagne del Pollino tra la Basilicata e la Calabria, fino ai casi di possessione in Irpinia o nel salernitano.

 Il documentario, tuttavia, rappresenta solo una fase dell’ampia esperienza artistica di Di Gianni, il quale mosse i primi passi nel cinema partendo appunto dall’indagine di tipo etnografico, per poi spostarsi sul versante più prettamente finzionale, senza tuttavia mai tradire un tipo di approccio alla materia rappresentata che potremmo definire, senza molte esitazioni, di tipo esistenziale. […]

 “Le tematiche che mi sono a cuore riguardano l’uomo in senso esistenziale, l’uomo inteso non soltanto in termini sociali ma come essere irradiato anche verso aspetti di trascendenza. La solitudine, l’angoscia, l’emarginazione sono i termini che accomunano i miei documentari ai miei film di fiction[1]” .

Al centro della poetica dell’autore è ravvisabile in effetti un criterio che potremmo definire archetipale più che documentale; al cuore di tutti i suoi film c’è sempre l’Uomo con la sua storia intima, e il cinema si configura da subito come necessità di ricondurre l’immagine al suo statuto ontologico e l’uomo alla sua natura, al proprio nostos.

Si capisce come nel suo ambiente, il cinema, Di Gianni si è da subito distinto per una certa insofferenza riguardo ai gusti e all’ideologia dominanti perseguendo, con una coerenza che rasenta l’autolesionismo, la sua personale ricerca espressiva. Se l’Italia dei telefoni bianchi tendeva a rendere una visione edulcorata della società, in attesa  di quell’agognato boom economico che di li a poco avrebbe soffocato definitivamente gli sfibrati lamenti provenienti dalle realtà marginali del Sud, Di Gianni sceglie di rimanere fuori dal coro, osservando e rappresentando, nell’idioma dello sguardo, quanto di più urgente quella stessa società avrebbe dovuto rivelare.

 Diversi sono i livelli formali e di messa in scena con cui i documentari e i film di finzione raccontano la marginalità di talune realtà, tutti ad ogni modo fondati sulla denuncia più o meno diretta della società in via di industrializzazione e sulle sue aberranti distorsioni, oltre che sulla  necessità impellente di conservare l’identità culturale di un popolo.

Da un lato quindi, la necessità di un’indagine storico-antropologica che, a partire dagli spunti e le consulenze di Ernesto De Martino, fotografa la magmatica realtà meridionale selezionandone gli aspetti più legati ad un folklore arcaico e magico-religioso, dall’altro l’inevitabilità di una riflessione sulla natura umana nonché sui modi di rappresentazione artistica. In questo senso va anticipato che, sul piano esistenziale, il pessimismo di Di Gianni è radicale, e non può che dissimularsi, sul piano estetico, nell’eleganza della forma, nell’emblematicità del gesto, nella ricerca affannosa della grazia.

La particolarità di questa ricerca risiede nella possibilità, da parte di chi scrive, di elaborare le diverse analisi e riflessioni partendo dal confronto diretto con l’autore stesso, in una sorta di feedback continuo che ha consentito la nascita di una forma testuale a metà strada tra lo studio monografico e la biografia. Impossibile del resto rimanere indifferenti alla capacità di fascinazione di Di Gianni, al suo modo di trascinare l’ascoltatore nelle tele del proprio vissuto e del proprio immaginario, sempre sul filo di una tensione tra memoria personale e memoria ancestrale.

Questo studio si propone dunque di ricostruire i tasselli di una carriera cinematografica che va di pari passo con il racconto di una vita e di un’estetica, in un percorso binario che tuttavia non esclude l’univocità dell’intento; preservare la memoria.

La prima parte del lavoro è finalizzata a ripercorrere brevemente la nascita e gli sviluppi del documentario in generale e del film etnografico italiano in particolare, nel tentativo di fornire delle linee giuda sulle definizioni e differenziazioni tra “generi” e modalità di rappresentazione cinematografiche. Questo capitolo vuole offrirsi come sorta di “mappa instabile” sulla quale orientarsi in un campo d’indagine piuttosto tortuoso sia sul piano della ricerca teorico-filologica  che sull’analisi diretta, e che non potrebbe certo risolversi in questa sede[2].

La seconda sezione conduce direttamente al cuore della ricerca; l’analisi dei film di Di Gianni ritenuti più interessanti è svolta attraverso note critiche originali che ne evidenziano sia il valore artistico sia i dati etnografici maggiormente degni di nota. Come anticipato, queste riflessioni nascono dal confronto con l’autore stesso e talvolta sono state elaborate “su campo”, come nella migliore tradizione etno-antropologica. Tra le varie attività svolte con Di Gianni ad esempio, ho avuto modo di visitare gli stessi  luoghi da lui investigati e filmati a partire da 50 anni fa, e di “subire” quindi la fascinazione di quei paesaggi e di chi li abita, oltre che la rigorosa metodologia digianniana[3].

Vedremo come il territorio lucano offrì e continua ad offrire al nostro autore spunti di grande suggestione, soprattutto per la forte tradizione magico-religiosa che, sebbene con diverse modalità, si può rintracciare ancora oggi. Si capisce dunque come la Lucania, terra d’origine del regista da parte paterna, rappresenti la location privilegiata, quel “paesaggio dell’anima” che torna programmaticamente nelle opere più sentite.

La terza sezione avrebbe dovuto contenere una sorta di resoconto sotto forma di “riflessioni sul metodo” raccolte durante le collaborazioni con l’autore. Ma ecco che lo sguardo gettato sull’altro diviene, come vorrebbe un precetto connaturato all’atto stesso del documentare, sguardo su se stessi: ben presto si è fatta strada la necessità di dare a questa materia una forma nuova, più vivace e penetrante, una forma che condensasse tutta una serie di sollecitazioni ed emozioni sentite a fior di pelle e spesso difficili da trattenere. E’ affiorato spontaneamente dunque, sul frastagliato orizzonte del “fare”, il desiderio di applicare la teoria alla pratica, e così ho deciso di inserire in questo capitolo le varie fasi di scrittura del progetto per un film-documentario su Luigi Di Gianni che è in fase di lavorazione. Ritengo che la forma di work in progress che ho voluto mantenere, possa aiutare ad entrare meglio nell’anima di un’elaborazione che vuole offrirsi al contempo come ipotisi metodologica e come percorso intimo e personale. Mi è sembrato inoltre doveroso inserire in appendice la filmografia completa dell’autore assieme alle purtroppo esigue pubblicazioni che lo riguardano.

Dovrebbe trattarsi dunque di una relazione ad un tempo multiprospettica e compatta, in cui l’infittirsi delle riflessioni analitiche spesso cede il passo all’immediatezza del racconto e dell’esperienza. Ma piuttosto che le intenzioni e gli esiti di chi scrive, ciò che mi preme rilevare è che a rendere oggi necessaria una disamina di un’opera anomala e misconosciuta come quella di Luigi Di Gianni, è proprio quel senso rigoroso dell’arte e della vita, quell’atteggiamento nei confronti dell’oggetto da rappresentare che si pone innanzitutto come gesto etico ed estetico. Nell’epoca dei mondi virtuali e della manipolazione forsennata delle immagini, nell’era della giostra mediatica dell’informazione diretta dai governi e del cinema in franchising, l’opera cinematografica e televisiva di Di Gianni si pone come uno sberleffo, come un controcanto ideologico che nella sua astoricità non può che gettare, su questa realtà convulsa e omolagante, una netta ombra di dubbio.

Questo studio è dedicato a chi crede nella superstizione nel senso etimologico del termine, ossia a chi sente che dopotutto e aldilà di tutto, in questo programmatico oblio del sensibile, qualcosa resta.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Dati dell’autore

Nome e Cognome: Simone Del Grosso

Indirizzo e-mail: ciammric@hotmail.com

Sito web:

 

 

 

 



[1] Dalle conversazioni con l’autore.

[2] A malincuore va sottolineato che non esistono oggi in Italia manuali che trattino di tale argomento in modo semplice, lineare e sistematico. Esistono pregevoli monografie e saggi specifici certamente di grande interesse per lo specialista ma poco maneggevoli per chi volesse reperire informazioni attendibili su quelli che sono stati i protagonisti dell’evoluzione storica del documentarismo classico e sulle loro opere più rilevanti. Comunque, per una rapida ricognizione in questo senso, almeno fino alla seconda guerra mondiale, si rimanda all’agile libretto di Carlo Alberto Pinelli, L’abc del documentario, Dino Audino Editore, Roma, 2001 o, per un approfondimento maggiore, a Roberto Nepoti, Storia del documentario, Patron, Bologna, 1988.

[3] Mi riferisco qui al Campus Cinematografico sulla magia tenutosi a Pisticci e Matera nel giugno 2005, dove Di Gianni ha diretto un modulo teorico-pratico sul documentario antropologico.