Autore: Simone Del Grosso |
Relatore:
Antonella Grassi |
|
Correlatore: Angelo Moscariello |
Estratto della tesi:
INTRODUZIONE
Luigi di Gianni è un regista napoletano che
vive e lavora a Roma sin dagli anni ‘50, quando inizia ad occuparsi di
cinema-documentario, e in particolare di quella forma documentaria che nasce
dall’incontro tra le scienze antropologiche e la pratica filmica catalogata
come film-etnografico.
I lavori dell’autore rappresentano, tra le altre cose, una
delle più organiche testimonianze sulla cultura subalterna del Mezzogiorno
d’Italia, fotografata in una fase di violento trapasso storico quale fu il
ventennio che va dal 50’ fino ai primi anni 70’. Le opere realizzate dal
regista tra queste due decadi, documentano fenomeni di straordinario rilievo
sociale e culturale, dal lamento funebre carico di echi pagani in Lucania alla
ritualità sotterranea delle anime del Purgatorio nelle cripte di Napoli, dal
materico culto delle pietre di Raiano in Abruzzo agli arcaici pellegrinaggi fra
le montagne del Pollino tra la Basilicata e la Calabria, fino ai casi di
possessione in Irpinia o nel salernitano.
Il
documentario, tuttavia, rappresenta solo una fase dell’ampia esperienza
artistica di Di Gianni, il quale mosse i primi passi nel cinema partendo
appunto dall’indagine di tipo etnografico, per poi spostarsi sul versante più
prettamente finzionale, senza tuttavia mai tradire un tipo di approccio alla
materia rappresentata che potremmo definire, senza molte esitazioni, di tipo esistenziale.
[…]
“Le
tematiche che mi sono a cuore riguardano l’uomo in senso esistenziale, l’uomo
inteso non soltanto in termini sociali ma come essere irradiato anche verso
aspetti di trascendenza. La solitudine, l’angoscia, l’emarginazione sono i
termini che accomunano i miei documentari ai miei film di fiction[1]”
.
Al centro della poetica dell’autore è
ravvisabile in effetti un criterio che potremmo definire archetipale più
che documentale; al cuore di tutti i suoi film c’è sempre l’Uomo con la sua
storia intima, e il cinema si configura da subito come necessità di ricondurre
l’immagine al suo statuto ontologico e l’uomo alla sua natura, al proprio nostos.
Si capisce come nel suo ambiente, il cinema, Di
Gianni si è da subito distinto per una certa insofferenza riguardo ai gusti e
all’ideologia dominanti perseguendo, con una coerenza che rasenta
l’autolesionismo, la sua personale ricerca espressiva. Se l’Italia dei telefoni
bianchi tendeva a rendere una visione edulcorata della società, in
attesa di quell’agognato boom
economico che di li a poco avrebbe soffocato definitivamente gli sfibrati
lamenti provenienti dalle realtà marginali del Sud, Di Gianni sceglie di
rimanere fuori dal coro, osservando e rappresentando, nell’idioma dello
sguardo, quanto di più urgente quella stessa società avrebbe dovuto rivelare.
Diversi
sono i livelli formali e di messa in scena con cui i documentari e i film di
finzione raccontano la marginalità di talune realtà, tutti ad ogni modo fondati
sulla denuncia più o meno diretta della società in via di industrializzazione e
sulle sue aberranti distorsioni, oltre che sulla necessità impellente di conservare l’identità
culturale di un popolo.
Da un lato quindi, la necessità di un’indagine
storico-antropologica che, a partire dagli spunti e le consulenze di Ernesto De
Martino, fotografa la magmatica realtà meridionale selezionandone gli aspetti
più legati ad un folklore arcaico e magico-religioso, dall’altro
l’inevitabilità di una riflessione sulla natura umana nonché sui modi di
rappresentazione artistica. In questo senso va anticipato che, sul piano
esistenziale, il pessimismo di Di Gianni è radicale, e non può che
dissimularsi, sul piano estetico, nell’eleganza della forma, nell’emblematicità
del gesto, nella ricerca affannosa della grazia.
La particolarità di questa ricerca risiede
nella possibilità, da parte di chi scrive, di elaborare le diverse analisi e
riflessioni partendo dal confronto diretto con l’autore stesso, in una sorta di
feedback continuo che ha consentito la nascita di una forma testuale a
metà strada tra lo studio monografico e la biografia. Impossibile del resto
rimanere indifferenti alla capacità di fascinazione di Di Gianni, al suo
modo di trascinare l’ascoltatore nelle tele del proprio vissuto e del proprio
immaginario, sempre sul filo di una tensione tra memoria personale e memoria
ancestrale.
Questo studio si propone dunque di ricostruire
i tasselli di una carriera cinematografica che va di pari passo con il racconto
di una vita e di un’estetica, in un percorso binario che tuttavia non esclude
l’univocità dell’intento; preservare la memoria.
La prima parte del lavoro è finalizzata a
ripercorrere brevemente la nascita e gli sviluppi del documentario in generale
e del film etnografico italiano in particolare, nel tentativo di fornire delle
linee giuda sulle definizioni e differenziazioni tra “generi” e modalità di
rappresentazione cinematografiche. Questo capitolo vuole offrirsi come sorta di
“mappa instabile” sulla quale orientarsi in un campo d’indagine piuttosto
tortuoso sia sul piano della ricerca teorico-filologica che sull’analisi diretta, e che non potrebbe
certo risolversi in questa sede[2].
La seconda sezione conduce direttamente al
cuore della ricerca; l’analisi dei film di Di Gianni ritenuti più interessanti
è svolta attraverso note critiche originali che ne evidenziano sia il valore
artistico sia i dati etnografici maggiormente degni di nota. Come anticipato,
queste riflessioni nascono dal confronto con l’autore stesso e talvolta sono
state elaborate “su campo”, come nella migliore tradizione etno-antropologica.
Tra le varie attività svolte con Di Gianni ad esempio, ho avuto modo di
visitare gli stessi luoghi da lui
investigati e filmati a partire da 50 anni fa, e di “subire” quindi la fascinazione
di quei paesaggi e di chi li abita, oltre che la rigorosa metodologia
digianniana[3].
Vedremo come il territorio lucano offrì e
continua ad offrire al nostro autore spunti di grande suggestione, soprattutto
per la forte tradizione magico-religiosa che, sebbene con diverse modalità, si
può rintracciare ancora oggi. Si capisce dunque come la Lucania, terra
d’origine del regista da parte paterna, rappresenti la location
privilegiata, quel “paesaggio dell’anima” che torna programmaticamente nelle
opere più sentite.
La terza sezione avrebbe dovuto contenere una
sorta di resoconto sotto forma di “riflessioni sul metodo” raccolte durante le
collaborazioni con l’autore. Ma ecco che lo sguardo gettato sull’altro diviene,
come vorrebbe un precetto connaturato all’atto stesso del documentare, sguardo
su se stessi: ben presto si è fatta strada la necessità di dare a questa
materia una forma nuova, più vivace e penetrante, una forma che condensasse
tutta una serie di sollecitazioni ed emozioni sentite a fior di pelle e spesso
difficili da trattenere. E’ affiorato spontaneamente dunque, sul frastagliato
orizzonte del “fare”, il desiderio di applicare la teoria alla pratica, e così
ho deciso di inserire in questo capitolo le varie fasi di scrittura del
progetto per un film-documentario su Luigi Di Gianni che è in fase di
lavorazione. Ritengo che la forma di work in progress che ho voluto
mantenere, possa aiutare ad entrare meglio nell’anima di un’elaborazione che
vuole offrirsi al contempo come ipotisi metodologica e come percorso intimo e
personale. Mi è sembrato inoltre doveroso inserire in appendice la filmografia
completa dell’autore assieme alle purtroppo esigue pubblicazioni che lo
riguardano.
Dovrebbe trattarsi dunque di una relazione ad
un tempo multiprospettica e compatta, in cui l’infittirsi delle riflessioni
analitiche spesso cede il passo all’immediatezza del racconto e
dell’esperienza. Ma piuttosto che le intenzioni e gli esiti di chi scrive, ciò
che mi preme rilevare è che a rendere oggi necessaria una disamina di un’opera
anomala e misconosciuta come quella di Luigi Di Gianni, è proprio quel senso
rigoroso dell’arte e della vita, quell’atteggiamento nei confronti dell’oggetto
da rappresentare che si pone innanzitutto come gesto etico ed estetico.
Nell’epoca dei mondi virtuali e della manipolazione forsennata delle immagini,
nell’era della giostra mediatica dell’informazione diretta dai governi e del
cinema in franchising, l’opera cinematografica e televisiva di Di Gianni
si pone come uno sberleffo, come un controcanto ideologico che nella sua
astoricità non può che gettare, su questa realtà convulsa e omolagante, una
netta ombra di dubbio.
Questo studio è dedicato a chi crede nella superstizione
nel senso etimologico del termine, ossia a chi sente che dopotutto e aldilà di
tutto, in questo programmatico oblio del sensibile, qualcosa resta.
Nome e Cognome: Simone Del Grosso
Indirizzo e-mail: ciammric@hotmail.com
Sito web:
[1] Dalle conversazioni con l’autore.
[2] A malincuore va sottolineato che non esistono oggi in Italia manuali che trattino di tale argomento in modo semplice, lineare e sistematico. Esistono pregevoli monografie e saggi specifici certamente di grande interesse per lo specialista ma poco maneggevoli per chi volesse reperire informazioni attendibili su quelli che sono stati i protagonisti dell’evoluzione storica del documentarismo classico e sulle loro opere più rilevanti. Comunque, per una rapida ricognizione in questo senso, almeno fino alla seconda guerra mondiale, si rimanda all’agile libretto di Carlo Alberto Pinelli, L’abc del documentario, Dino Audino Editore, Roma, 2001 o, per un approfondimento maggiore, a Roberto Nepoti, Storia del documentario, Patron, Bologna, 1988.
[3] Mi riferisco qui al Campus Cinematografico sulla magia tenutosi a Pisticci e Matera nel giugno 2005, dove Di Gianni ha diretto un modulo teorico-pratico sul documentario antropologico.